La globalizzazione e il lungo “momento unipolare” americano teorizzato da Charles Krauthammer nel lontano 1990 si avviano a diventare la Storia di ieri, mentre l’avvento del mondo multipolare, peraltro oggetto recentemente di un interessantissimo intervento di Tony Blair all’Annual Lecture della Ditchley Foundation, rappresenta ancora la Storia di domani. Nel mezzo si trova il tempo presente, un periodo di transizione che sarà più o meno lungo a seconda dei risultati che verranno fuori dall’importantissima partita geopolitica che si sta giocando in Ucraina e, in maniera più discreta, nel Pacifico.
I grandi passaggi storici, quelli che inevitabilmente finiscono nei libri di Storia e vengono studiati per i decenni seguenti, sono notoriamente periodi difficili e ricchi di incertezze, ma anche di grandi opportunità. E quello che stiamo vivendo non fa eccezione.
Se il cuore della globalizzazione erano stati il mercato e lo sviluppo globale, incentrati su modelli produttivi ed organizzativi fortemente ottimizzati dal punto di vista della fiscalità, del costo del lavoro, dei costi di produzione e dotati di catene di approvvigionamento e di strategie di investimento veramente globali, questi stessi modelli di fare impresa si trovano ora confrontati con una realtà globale in forte trasformazione e frammentazione.
In un contesto di crescente scontro tra superpotenze (USA, Russia, Cina e India) – insieme alle rispettive aree di influenza – sia sul piano militare che, soprattutto, su quello economico, ciascun blocco riunito attorno alla propria superpotenza di riferimento è chiamato, per evidenti ragioni di sicurezza interna economica e militare, ad investire ed operare per avere proprie strutture finanziarie, un proprio sistema industriale, risorse energetiche, manodopera e materie prime almeno bastevoli per il proprio sviluppo interno. Qualsiasi blocco infatti sa che se si ritrovasse eccessivamente dipendente da un altro finirebbe presto fagocitato dal blocco più forte e ridotto ad una mera area di influenza.
Le frontiere che fino a ieri sembravano un residuo del passato, tornano quindi prepotentemente ad avere un ruolo centrale nella strategia geopolitica e, inevitabilmente, anche in quella economica.
Il rischio Paese, nelle sue numerose manifestazioni come, ad esempio, sanzioni internazionali, restrizioni al commercio, mancato rispetto della proprietà intellettuale, instabilità politica, corruzione o insufficiente certezza del diritto, assume una posizione sempre più centrale nelle valutazioni del rischio di investimento e di impresa.
La fine della globalizzazione e il mutato scacchiere geopolitico confrontano aziende ed imprenditori con crescenti compessità e difficoltà, ma offrono loro, al contempo, anche nuove, enormi opportunità, particolarmente in Europa e in Svizzera.
Spinte dai cambiamenti in atto sul fronte geopolitico, le grandi multinazionali sono infatti chiamate a ripensare radicalmente i propri modelli produttivi e le proprie catene di approvvigionamento. Intere filiere produttive, ora esternalizzate in Asia, dovranno essere reimpiantate in Europa e negli Stati Uniti, per ricostruire quelle capacità produttive ed organizzative, un tempo abbondanti ed estremamente avanzate, essenziali per un’efficace competizione a blocchi su scala globale.
Ma anche per ricostruire una domanda interna che, specialmente in Europa, ha subito un lungo processo di distruzione.
Si dovranno nuovamente acquisire e sviluppare know how, capacità organizzative e produttive, assumere e formare personale e riconfigurare l’intero sistema formativo per alimentare non solo un’economia di servizi, ma anche e soprattutto di produzione.
Tutto questo al fine di garantire che il blocco europeo-americano sia in grado di approvvigionarsi e di produrre quanto necessario alla crescita della propria società: microchip, componentistica, assemblaggio, aeronautica, autoveicoli, industria pesante, lavorazioni della pelle e del tessuto, abbigliamento… la lista è molto lunga.
Tutti i settori industriali e di servizi, con differenti livelli di intensità, sono quindi chiamati a confrontare il proprio attuale assetto organizzativo e produttivo con le emergenti complessità derivanti dai rischi sistemici insiti in una logica globale di contrapposizione a blocchi.
Con il tempo – è l’augurio che ci facciamo tutti – questi rischi sistemici potranno essere mitigati dall’avvento di una nuova rete di accordi commerciali e di libero scambio tra blocchi, ma la globalizzazione che abbiamo conosciuto negli ultimi trent’anni appartiene ormai ai libri di Storia.
Quello qui descritto in estrema sintesi è un macro trend di grande importanza per il nostro Ticino. Le industrie ticinesi, con la loro flessibilità organizzativa ed alta competenza del personale hanno davanti a se un’opportunità unica di intercettare parte di quel flusso di industrializzazione di ritorno che si sta muovendo dall’Oriente nuovamente verso Occidente. È infatti notizia di Bloomberg di pochi giorni fa che il 23% delle aziende europee operanti in Cina sta valutando di riportare nell’immediato futuro la produzione nel proprio Paese di origine, con le inevitabili ricadute in termini di nuovi investimenti, fornitori, catene di approvvigionamento e di produzione.
Il Ticino deve puntare a diventare un tassello importante di questa reindustrializzazione europea, in maniera similare a quanto fatto alla fine della Seconda Guerra Mondiale dalle imprese svizzere che, uniche ad essere state risparmiate dai bombardamenti, ebbero un ruolo fondamentale nel far ripartire la produzione industriale in Europa.
È cosa nota che la Storia tende a ripetersi, anche se mai esattamente nello stesso modo. Se la classe politica ed imprenditoriale ticinese sapranno guardare a questo grande cambiamento storico e geopolitico come ad un’opportunità oltre che come ad un rischio, potranno godere di un’occasione veramente unica per assicurarsi un futuro di prosperità per l’intero Cantone.
Leonardo Bussi,
Avvocato