Questo strumento, segnatamente quello della cosiddetta esecuzione sostitutiva, riveste per il committente – tanto nell’ambito di contratti d’appalto assoggettati alla norma SIA 118, quanto in quelli più classicamente riconducibili al regime legale previsto dal Codice delle obbligazioni – particolare rilevanza nell’ottica di scongiurare il pericolo che una situazione non conforme al contratto gli arrechi (o continui ad arrecare) danno rispettivamente aggravi un danno già esistente. Nondimeno, la sua applicazione pratica è tutt’altro che evidente, perché subordinata all’adempimento di specifici requisiti materiali e al rispetto di altrettanto precise formalità.
Dal punto di vista materiale, è anzitutto necessario che l’opera sia difettosa o difforme da quella contrattualmente pattuita e ciò, a prescindere che la stessa si trovi in fase di realizzazione (“durante l’esecuzione dell’opera”) o che, per contro, sia già stata ultimata. Questa seconda ipotesi, non direttamente derivabile da un’analisi letterale dell’art. 366 cpv. 2 CO, è nondimeno da tempo ammessa dalla giurisprudenza così come lo è quella secondo cui il committente può avvalersi dell’esecuzione sostitutiva addirittura prima che l’impresario abbia iniziato le lavorazioni di sua competenza.
Il disposto di legge in questione lascia chiaramente intendere che, oltre ai difetti in senso stretto (es. un’errata pendenza della platea di fondazione), anche altre situazioni contrarie alle pattuizioni contrattuali – se in qualche modo riconducibili alla realizzazione dell’opera (es. l’impiego di un subappaltatore in violazione del contratto) – danno potenzialmente diritto al committente di avvalersi di questo strumento.
Se la realizzazione dell’opera non è ancora iniziata o è in corso, è essenziale che la sua difettosità rispettivamente difformità sia “prevedibile con certezza”. In altre parole, le circostanze di specie devono permettere la conclusione, sulla base di una valutazione obiettiva e ragionevole, che l’opera riuscirà difettosa o comunque differente, per risultato o anche solo per le modalità e i mezzi impiegati per la sua realizzazione, da quella concordata. Una certezza assoluta non è evidentemente necessaria: incertiora futura praeteritis sunt.
In secondo luogo, difettosità o difformità devono essere riconducibili a una “colpa dell’appaltatore” o di un suo ausiliario (es. un suo subappaltatore). Questo presupposto va inteso, in considerazione dello scopo della norma, nel senso che al committente non deve essere imputabile una sua propria, personale colpa con riferimento alla non conformità contrattuale della situazione venutasi a creare.
Se questi requisiti risultano soddisfatti, al committente spetta di principio il diritto di affidare il ripristino dell’opera, o la sua continuazione e ultimazione, a una ditta terza con relative spese a carico del precedente appaltatore, a patto che abbia preliminarmente concesso a quest’ultimo la possibilità di provvedervi direttamente, segnatamente fissandogli (o facendogli fissare) un termine sufficiente allo scopo, ovverosia “congruo”.
Cosa ha da ritenersi congruo dipende, come d’abitudine, dalle circostanze del caso in esame. La fissazione di un termine troppo breve non obbliga in ogni caso il committente a fissarne uno nuovo; il termine troppo breve, e quindi non “congruo”, verrà infatti automaticamente sostituito da uno adeguato, con l’unica differenza che i costi imputabili all’appaltatore inadempiente coincideranno con quelli insorti successivamente allo spirare del secondo termine anziché del primo.
In taluni casi, es. in presenza di manifesta incapacità organizzativa e/o esecutiva dell’appaltatore, il committente potrà dribblare questa formalità anche se, precauzionalmente e nell’ottica di un eventuale contenzioso, è mia opinione che (situazioni estreme a parte) sia comunque sempre meglio fissare un termine suppletivo, quantunque breve.
Avv. Michele Bernasconi