Oltre alla tematica sanitaria, qualcuno ricorderà soprattutto durante la prima ondata la preoccupazione riguardante le sorti dell’economia. C’è chi addirittura prevedeva una “pandemia” economica che avrebbe messo in ginocchio la società in un modo particolarmente grave. Nel frattempo la situazione sanitaria e le relative misure si sono allentate e la normalità sembra riconquistata. È quindi tempo di chiederci cosa ci lascia in eredità questa pandemia, quali lezioni abbiamo tratto dalla difficile situazione?
Una costatazione che è difficile da smentire è che i due anni di crisi hanno mostrato che il nostro benessere dipende dalla possibilità delle nostre imprese di investire, di avere certezze, di riuscire a trovare soluzioni o ancora di avere a disposizione la manodopera necessaria. Ogni intervento o limitazione sono costati molto, sia alle imprese che allo Stato: niente è restato privo di conseguenze. Solo l’intervento tempestivo e mirato della Confederazione ha permesso di evitare gravi reazioni a catena e di stabilizzare l’economia. Il costo dell’operazione è stato di varie decine di miliardi di franchi che nei prossimi anni andranno ammortizzati. Insomma, l’attività delle imprese dipende dalle condizioni entro le quali esse sono chiamate ad operare. Costi, limitazioni e imposizioni si riflettono uno a uno su fatturati e impieghi e disoccupazione.
Questa logica che domina i mercati dalla notte dei tempi e che la pandemia ci ha illustrato in modo drammaticamente evidente non sembra per ora aver lasciato il segno presso i cittadini.
Poche settimane fa, il 13 febbraio scorso, il popolo avrebbe avuto l’occasione di abolire la tassa di emissione, una delle tre anacronistiche tasse di bollo prelevate a livello nazionale. Una imposta che genera lo 0,35% delle entrate della Confederazione e che, oltre ad incentivare l’indebitamento delle imprese, le colpisce proprio quando queste – durante o dopo una crisi – vogliono (ri)costituire il proprio capitale. La sentenza dei cittadini, assolutamente da rispettare, è stata netta: oltre il 60% ha ritenuto di non semplificare la vita alle imprese in crisi e di mantenere questa tassa.
Alle nostre latitudini, per contro, il Gran Consiglio si è chinato poche sessioni fa sulla tassa di collegamento, che ricordo prevede che i privati che dispongono di 50 e più posteggi prelevino una tassa su questi stalli e la versino al Cantone. Oltre a generare una disparità di trattamento clamorosa (chi ha meno di 50 posteggi non paga nulla, chi ne ha 51 e più paga su tutto!) e 18 milioni per l’erario, questo balzello dovrebbe essere suscettibile di ridurre il traffico, una logica che sfugge completamente al buon senso e all’evidenza che aziende e collaboratori hanno sperimentato nelle imprese che, in attesa di sentenze di tribunali, avevano provvisoriamente prelevato la tassa. Approvata con una maggioranza risicatissima nel 2016, il Gran Consiglio ha ora fissato l’introduzione della tassa nel 2025, senza chinarsi sulla possibilità di rivedere questa tassa – un unicum nel suo genere a livello svizzero.
Che sia chiaro, tutto è lecito e l’ultima parola spetta sempre ai cittadini e va rispettata. Ma attenzione: come nazione, da sempre dipendente dalla capacità di resilienza delle proprie imprese, dobbiamo chiederci se le nostre decisioni siano nell’interesse dei nostri posti di lavoro e della nostra forza imprenditoriale. In tempi di pandemia lo Stato ha mobilitato risorse imponenti per garantire impieghi e redditi.
Questo non sarà più il caso in tempi normali. Le conseguenze rischiano di essere pesanti.