L’inflazione è tornata ad essere protagonista anche in Svizzera dallo scorso anno, superando il 3%, pure se negli ultimi mesi sta rallentando soprattutto perché i prezzi dei vettori energetici sono diminuiti. Dal punto di vista comparativo la situazione elvetica è nettamente migliore rispetto a quella dei paesi dell’Unione europea e di molte nazioni al di fuori di essa, dove l’inflazione supera il 7-8%, ma i pericoli dell’inflazione non vanno sottovalutati pure nel nostro paese.
Come ben sappiamo, la stabilità dei prezzi e dunque la lotta al rincaro sono l’obiettivo prioritario della Banca Nazionale Svizzera, a giusta ragione. Ma perché è importante mantenere prezzi stabili, che per la nostra BNS si traduce in un tasso di rincaro massimo del 2% l’anno?
Mantenere prezzi stabili significa che i prezzi non devono aumentare in misura rilevante (inflazione) ma nemmeno diminuire per un periodo prolungato (deflazione).
Mantenere la stabilità dei prezzi aiuta dunque a far crescere l’economia perché non inibisce i consumi delle persone né gli investimenti delle aziende. Inoltre, i soldi in tasca dei cittadini mantengono intatto il loro valore, mentre l’inflazione erode il potere d’acquisto delle persone e rischia di innescare una pericolosa spirale al rialzo dei prezzi e dei salari.
Come si combatte l’inflazione?
Il medico chiamato a combattere la malattia dell’inflazione sono le banche centrali, nel nostro caso la BNS. Ciò avviene principalmente attraverso la politica monetaria, ossia l’aumento o la riduzione dei tassi di interesse di riferimento. In realtà le banche centrali assumono una strategia differenziata, intervenendo anche direttamente sui mercati finanziari tramite l’acquisto o la vendita di titoli, cercando così di influenzare i tassi di interesse a più lungo termine.
Sicuramente il meccanismo d’intervento sui tassi di interesse è molto delicato. Un aumento eccessivo dei tassi di interesse frena l’economia e inibisce consumi e investimenti. Il pericolo di recessione si accentua e il rischio di perdere posti di lavoro aumenta. Se si innesca una fase di recessione economica le conseguenze per imprese e cittadini sono molto pesanti.
In questa fase estiva rileviamo che le banche centrali hanno comunque deciso di aumentare i loro tassi ufficiali nonostante l’inflazione sia abbastanza rapidamente ridiscesa a seguito della forte caduta dei prezzi dell’energia e dei beni alimentari nonché alla normalizzazione delle catene di produzione. Perché questo? Ma perché le banche centrali sono convinte che il pericolo dell’inflazione non è affatto dissipato e che le tensioni sul mercato del lavoro accompagnate da una crescita accentuata dei profitti possano innescare una pericolosa spirale al rialzo di prezzi e salari.
Recenti studi dell’OCSE e della Banca centrale europea hanno mostrato che i profitti hanno rappresentato una componente molto importante dell’inflazione, circa il 45%. In una situazione di profitti elevati le aziende sono meno dipendenti dal credito bancario e dunque la politica monetaria diventa meno efficace. Ne consegue che la sola politica monetaria può non essere sufficiente a combattere l’inflazione, ma deve essere accompagnata ad esempio da politiche di ordine fiscale e di intervento sulla concorrenza.
Quali conseguenze per le aziende?
La situazione congiunturale delle imprese rimane complessa. Il rallentamento della congiuntura è già stato percepito negli ultimi tre mesi e la crescita dei fatturati è debole, anche se l’utilizzo delle capacità tecnico-produttive e delle infrastrutture come rileva la BNS è sostanzialmente normale. Nell’industria, la relativa normalizzazione delle catene di approvvigionamento permette di evadere ordini ancora arretrati. Ad inizio agosto, comunque, l’indice degli acquisti da parte delle aziende ha mostrato una netta flessione, segnale che almeno a breve termine si attende una contrazione della produzione e degli ordinativi.
In questa situazione il ruolo delle aziende è altrettanto delicato e importante rispetto a quello delle banche centrali. Le imprese possono aggiustare il prezzo dei prodotti più facilmente rispetto a quanto possono fare i loro dipendenti, difendendosi almeno parzialmente dalla perdita sui margini di profitto. L’aumento dei prezzi a livello più generale genera tuttavia inflazione.
Secondo il Fondo monetario internazionale, l’aumento dei profitti delle imprese è stato maggiore rispetto all’aumento dei costi delle materie prime per realizzare i propri prodotti e questo ha contribuito in maniera decisiva all’aumento dell’inflazione.
Attenzione però a trarre conclusioni sbagliate. Il fatto che i profitti siano aumentati non significa che sia aumentato il margine di profitto, ossia la percentuale di ricavo che, al netto di tutti i costi, diventa profitto. Anzi, come evidenziano gli studi ufficiali dei più importanti organismi economici, l’inflazione non ha aumentato la profittabilità delle imprese.
Stefano Modenini,
Direttore AITI
www.aiti.ch