Più significativo ed interessante è però il seguente dato: 590’000 società, rispettivamente il 98,2% di tutte le imprese in Svizzera, danno lavoro a meno di 50 persone. In questo articolo mi concentrerò sulle 90’000 strutture del settore secondario, ossia dell’industria manifatturiera, chimica, farmaceutica, agroalimentare, metallurgica, meccanica, energetica, tessile, edile e dell’artigianato.
La forza trainante di questo importante pilastro economico è spesso il suo fondatore e titolare, un ingegnere, chimico, artigiano con una maestria professionale, tecnico, architetto, disegnatore e via dicendo. Persone con idee innovative, intuizione, coraggio e visione. Lasciatemelo dire: nutro un gran rispetto e ammirazione verso questi imprenditori che sacrificano il loro tempo libero e le vacanze, che lavorano senza orari fissi, non dormono sempre sonni tranquilli e rischiano il loro patrimonio anche privato per creare e mantenere posti di lavoro. Si indentificano con la loro azienda, prestando il loro nome e mettendoci la faccia.
La conduzione è spesso familiare e coinvolge non raramente anche la prima e seconda generazione. Nell’”alta direzione”, ossia in un eventuale Consiglio d’Amministrazione, quasi mai troviamo persone terze ed indipendenti, se non il proprio avvocato di fiducia.
Gli affari, le idee, i problemi e le proposte vengono discussi e decisi durante il pranzo della domenica, senza una vera lista delle trattande, senza un verbale che spiega come si è arrivati a certe conclusioni e senza una procedura di “follow-up”. Predominanti rimangono quasi sempre l’opinione e la decisione del padre-padrone, basate sull’esperienza e sul buon senso. Tutto ciò è comprensibile e legittimo. In fondo è stato lui a mettere a rischio il capitale umano e finanziario, a creare una fiducia consolidata con la clientela, a privilegiare la scelta dei fornitori, a formare e guadagnare il rispetto dei collaboratori e a crescere grazie al passaparola.
“L’abbiamo sempre fatto così!”
Dove sta quindi il problema? Inizio con una bella espressione in lingua tedesca, la “Betriebsblindheit”, ossia la cecità operativa. Il rischio che si caschi nella modalità “l’abbiamo sempre fatto così” è più che presente. Un nervo aperto che addolora soprattutto le nuove generazioni, che percepiscono e ambiscono a dei cambiamenti: per esempio il figlio o la figlia, reduci da studi universitari in economia e finanze, che mirano ad introdurre una pianificazione finanziaria, un controllo di gestione, una strategia a media scadenza, un monitoraggio delle performance, una valutazione dei rischi, un sistema di controllo interno, eccetera.
Confrontati con lo scetticismo del capofamiglia o peggio ancora con la banalizzazione delle tematiche, nei loro pensieri nasce il sospetto che il loro papà non sia in grado di ragionare “out of the box” e che non si renda conto di non sapere. A questi argomenti si aggiungono domande cui nessuno osa nemmeno accennare. “Papà, chi è il tuo sostituto, come sarà regolata la successione, chi prenderà le tue redini?”. Pensieri ricorrenti e legittimi che rimangono senza una risposta.
Dal consulente, personal trainer fino allo psicologo
È qui che prende sempre più piede il ruolo di un Advisory Board, termine anglofono entrato nel linguaggio aziendale. Nella nostra lingua si parla di “Comitato consultivo”, sì, perché non ha alcun potere decisionale, non dispone di un diritto di firma e non viene iscritto nel Registro di commercio. Affianca il Consiglio d’Amministrazione, rispettivamente la direzione o i membri di famiglia con delle raccomandazioni, o accompagna chi di dovere nell’introduzione di una nuova governance.
Tipici campi d’intervento possono essere collaborare nella scelta di una strategia, colmare delle lacune nella gestione, informare su nuove tendenze organizzative, commerciali, tecnologiche, legali, finanziarie e fiscali nonché ragionare su una analisi SWOT dell’azienda (forze, debolezze, opportunità e minacce).
Non solo, l’Advisory Board è spesso completato da altri specialisti come tecnici, chimici, professionisti della logistica, informatici o ingegneri. Con la loro consolidata esperienza ed il loro “network” facilitano il contatto con nuove controparti, creano opportunità, aprono nuovi mercati. Ma l’Advisory Board ha soprattutto un atout: può dare consigli e pareri svincolati, dibattere su delle idee, discutere in maniera aperta ed informale e, “last but not least”, è un organo discreto che lavora dietro le quinte, funge da personal trainer, da facilitatore, ogni tanto persino da psicologo.
Adriano P. Vassalli,
Consulente aziendale